Immagine storica di uno spiedo di carne

La carne ha accompagnato la storia dell’umanità.

Siamo stati prima raccoglitori, poi raccoglitori e cacciatori. A partire da 2,5 milioni di anni fa l’Homo habilis aumenta in modo cospicuo il consumo di carne. Agli inizi si dedica allo sfruttamento di carcasse residuali di prede di grandi carnivori, estraendo ad esempio il midollo. Procede ad uno sfruttamento intensivo di grassi e proteine animali attraverso caccia, pesca, fuoco….

Già... il fuoco. E qui avviene una doppia rivoluzione, che è allo stesso tempo culturale ed energetica. La vera rivoluzione non sta nella scoperta del fuoco, che in natura esisteva già – bastava un fulmine, una prolungata siccità - ma nel suo controllo e nel suo trasporto. E allora può essere che al maldestro Fred sia caduta una braciolina di qualche bestiola sul fuoco: apriti cielo. Non conosceva la reazione di Maillard, ma di sicura avrà olfattato con curiosità e anche gustato. Non sarà più come prima.

Secondo Claude Lévi-Strauss, il grande antropologio francese, con l’uso del fuoco nasce la cucina, creando un grande dualismo tra arrosto e bollito. Così l’arrosto, che è a diretto contatto col fuoco sarà più naturale del bollito, nel quale l’acqua, ma anche la pentola, media tra il fuoco e la materia prima. La cottura arrosto dunque rimanda ai fenomeni naturali del vivere umano, mentre il bollito è l’emblema dell’evoluzione culturale.

Ma secondo Richard Wrangham, professore di Biological Antropology ad Harvard - bello il suo libro “L’intelligenza del fuoco” (2014) - si tratta soprattutto di una rivoluzione energetica.

Le carni di animali selvatici sono povere di grassi e ricche di collagene, di tendini e tessuto connettivo dal valore nutrizionale quasi nullo, duro da masticare. Ma a 80° il collagene si scioglie e si trasforma in una proteina amorfa, la gelatina dei nostri brodi di carne, mettendo a disposizione le proteine muscolari, che si possono masticare e digerire più facilmente. Il calore facilita l’operazione di aprire, tagliare o schiacciare i cibi duri; rende gli alimenti più appetibili, migliorando sapore e aroma; neutralizza parassiti e sostanze tossiche, rendendo il cibo più sicuro. Ma tutte le vitamine si inattivano con l’alta temperatura, perciò l’uomo ha dovuto mantenere un alto introito di verdura e frutta cruda, proprio del suo vegetarismo ancestrale, esaltando il suo onnivorismo.

La cottura aumenta quindi la quantità di energia che il nostro corpo ricava dal cibo. La nuova e gustosa dieta a base di cibi cotti fece sì che evolvessero apparati digerenti più piccoli, cervelli e corpi più grandi, maggior abilità nella corsa, maggior abilità nella caccia, maggior longevità e si ponesse un’enfasi nuova sul legame tra femmine e maschi (nascita delle emozioni). La protezione offerta dal fuoco di notte consentì agli umani di dormire per terra e di perdere la loro abilità nell’arrampicarsi; e probabilmente le femmine cominciarono a cuocere per i maschi, che ebbero sempre più tempo a disposizione per andare in cerca di più carne e miele.

Bella storia.. Della serie: “non potevamo non mangiar carne, cotta”.

Ma torniamo al nostro racconto. La carne in età greca e romana aveva un ruolo sacrificale, con bassi consumi. Adesso non tiriamo fuori la dieta mediterranea… che è un’invenzione novecentesca.

La Chiesa sdogana il consumo di carne ma, pur lasciando liberi i fedeli, a differenza di altre religioni più prescrittive, nello stesso tempo la eleva a simbolo della forza, della lussuria, obbligando la cristianità ad astenersi, a digiunare. San Benedetto imporrà nella sua regola il rifiuto della carne. Il pensiero monastico vedeva la carne come un cibo desiderato, che faceva gola, quindi peccaminoso e per questo preferiva la visione biblica dell’uomo che si nutre dei frutti della terra: una concezione assimilabile a quella vegetariana. La Chiesa imporrà digiuni e astinenze e promuoverà formaggio e burro. Poiché la carne era vista come elemento nutrizionale per eccellenza privarsene significava allontanarsi dagli uomini per essere più vicini a Dio.

L’atteggiamento dei Cistercensi era stato ben sintetizzato da San Bernardo in uno dei suoi sermoni sul Cantico dei Cantici (n. 66): “Mi astengo dalla carne, perché alimentando eccessivamente il corpo nutro anche i desideri carnali; mi sforzo anche di prendere il mio pane con moderazione, perché uno stomaco pesante non mi impedisca di stare diritto in piedi nella preghiera”.

Ma c’era chi non poteva permettersi il lusso della scelta: gli strati più bassi della popolazione erano legati al consumo di carne di pollame e di maiale, facile da allevare e da conservare nei periodi di magra, grazie all’ausilio del sale, vero protagonista del Medioevo. Ed è proprio l’incontro tra “barbari” - grossi consumatori di cacciagione, frequentatori del bosco - e romani che permette l’adozione nel sistema alimentare europeo della carne.

Eginardo, biografo ufficiale di Carlo Magno, racconta come l’imperatore fosse solito consumare giornalmente parecchie libbre di carne arrosta. Lo sviluppo medievale delle città porterà alla nascita di nuovi mestieri: assume un ruolo importante la figura del macellaio e luoghi deputati alla vendita della carne saranno le becherie. Nascono gli insaccati e la figura del salumiere. I cittadini invece prediligevano altre carni diverse da quelle consumate durante i banchetti medievali, non apprezzavano i suini per il gusto rurale che conservavano, ma si orientavano principalmente sulla carne di bovino o di pecora e sui volatili, che assunsero un valore simbolico di leggerezza e di superiorità.

Ma la carne resterà un sogno, un cibo della festa per vasti strati della popolazione. Le inchieste a Italia Unita, quella di Stefano Jacini (1882) e quella di Agostino Bertani (Inchiesta sulle condizioni sanitarie dei lavoratori della terra (1890) testimoniano regimi alimentari poveri. Sentite cosa scriveva Luigi Alpago Novello, medico di Cison di Valmarino: “La carne per i contadini è un vero mito: che vi sia ciascun lo dice, cosa sia non lo sa. Noi abbiamo interrogato in proposito molti contadini, e ne trovammo più d’uno il quale ci giurò di non aver mai gustato un boccone di carne in vita sua neppure quando era caduto malato. La maggior parte non ha assolutamente i mezzi di comperarsene; solo talvolta si immola per qualche infermo, vittima preziosa, una pollastra allevata con lungo studio e grande amore in cucina. Qualche famiglia benestante, che ha del proprio, mantiene ed uccide a suo tempo un maiale, con cui si procaccia delle salsicce, cibo spesso impuro di carne di vacca o di cavallo, ma pur sempre invidiato dai più poveri!” Sono anni pellagrosi!

Tra il 1700 e il 1800 il consumo pro-capite di carne era di 10 kg all’anno; arriva a 15 kg nel decennio 1901-1910. Ma alcune rivoluzioni tecnologiche avranno nel corso degli ultimi 150 anni effetti importanti sul consumo di carne.

Da una parte Nicolas Appert e Pierre Durand sviluppano un sistema di conservazione della carne prima in vasi di vetro e poi in scatola, sistema perfezionato da Louis Pasteur e dal chimico tedesco Justus von Liebig: arriverà l’estratto di carne e il dado. Dall’altra l’americano John Gorrie (1893-1855) inventa la prima macchina frigorifera e il francese Charles Tellier (1818-1923) inventa il primo impianto frigorifero su piroscafo, il Frigorique, che nel 1876 trasportò in Francia un carico di carne macellata in Argentina dopo un viaggio di 105 giorni. La tecnica viene poi applicata ai vagoni ferroviari. In Italia, nel 1881, Pietro Sada studia nuovi processi di conservazione e mette la carne in una scatola. La svolta avviene in occasione della trasvolata delle Alpi in mongolfiera dello svizzero Gondrand, quando Sada gli offre il suo bollito in scatola come parte dei viveri. Da allora, tutti vollero assaggiarla come uno dei simboli del progresso. Nel 1923, il figlio di Pietro Sada, Gino Alfonso, fonda la Simmenthal e inizia la produzione di carne in gelatina in uno stabilimento a Monza. La prima guerra mondiale sancirà il trionfo della carne in scatola: milioni di scatolette verranno distribuite alle truppe al fronte e per molti soldati contadini sarà la prima volta.

Durante il ventennio fascista i consumi di carne saranno contenuti in seguito alle scelte autarchiche: circa 20 kg pro-capite. Poi è storia nostra, recente: è il boom economico a partire dal 1958. Nel decennio 1961-70 sono 42 kg di carne pro-capite, che diventano 64 nel decennio successivo. È fatta: una fettina di vitello non si nega a nessuno. Nel 2014 gli italiani hanno utilizzato in media 76 kg di carne pro capite, considerate anche le parti di scarto degli animali: 37,3 kg di suino (salumi compresi), 20 kg di bovino, 19 kg di pollame.

Ora è il momento della riflessione, del consumo consapevole, visti gli alti costi ambientali, è anche il momento del confronto ideologico: vegetariani, vegani, crudisti. Ed è un bene che il consumo sia diventato più consapevole.

C’è stato un momento nella nostra storia in cui non potevamo non mangiare carne, cotta… ora, per fortuna, possiamo anche fare altre scelte.

Danilo Gasparini