Il burro

Ci eravamo lasciati con un’Italia casearia definita geograficamente, praticamente spaccata in due: un’Italia padana, concentrata nella bassa lombarda, che si era specializzata nella produzione di formaggi di vacca, e un’Italia appenninica e insulare dove la pecora la faceva da padrone. Non escludiamo da questa geografia le innumerevoli realtà legate alla produzione di formaggi d’alpeggio, in genere formaggi cosiddetti “misturini”, cioè fatti con latte di vacca e in parte di pecora… anche qui da noi, in Altipiano d’Asiago. E a soddisfare la domanda di boschieri delle vallate alpine venete e trentine e di minatori della Val Imperina da Venezia partivano quintali di formaggi salati, il Morlacco in primis, che facevano parte del salario di questa manovalanza.

Ma il Settecento è ricordato anche, soprattutto nelle nostre aree, per la “guerra del burro”. Della sua fortuna legata alla dieta monacale e all’obbligo del digiuno abbiamo già scritto. In piena età moderna Martin Lutero, padre della Riforma Protestante, nei suoi discorsi “Alla nobiltà della nazione tedesca” (1520), farà dell’obbligo di pagare le licenze per condire col burro – butterbrieffen - durante la Quaresima, uno dei suoi cavalli di battaglia contro la Chiesa romana…e sarà butter für alle!

Si diceva della questione del burro per Venezia. Solo le malghe del Primiero ne producevano circa 80.000 libbre (40.000 q.) e dal feltrino ne giungevano circa 25 mila kg. Si certificava che:

“Il butirro feltrino ossia di Primier che per la sua qualità e singolarità che di conservarsi persino un anno intiero è ricercatissimo di particolare dai veneziani, godendo la preferenza di tutti gli altri che colà vendono trasportati, facendo di conseguenza un prezzo più alto”.

Il mercato di Montebelluna era il luogo destinato per la commercializzazione. Arrivato a Venezia il burro veniva preso in consegna dalla confraternita “dei butirranti che ne regolava in modo monopolistico la distribuzione e la vendita. A fine Settecento una norma che vietava ai sudditi del Tirolo di esportare burro- Primiero era sotto l’Impero- metterà in allarme i governanti veneziani che di quel burro del Primiero avevano assoluto bisogno. Ne nascerà una spinosa questione diplomatica.

La passione e la fortuna per il burro si rifanno anche a quella importante “rivoluzione dei fornelli” che nel corso del ‘700, a opera soprattutto dei cuochi francesi, abbandona l’abuso delle spezie ed elegge il burro come condimento ideale per preparare fondi e salse e per salvaguardare nelle preparazioni il sapore di ciascun ingrediente. La sua conquista è rappresentata nei grandi ricettari dell’epoca: La Cuisinière bourgeoise ne prevede l’impiego in ben 31 salse.

Zangola per il burro

Ma il Settecento, che non era cominciato bene causa l’esplodere di alcune epizoozie, il secolo dei lumi, è anche il periodo dell’Illuminismo, dell’Encyclopédie che dedica all’arte del casaro e della caseificazione delle voci specifiche e delle tavole.

Per l’Ottocento vale la pena di segnalare l’undicesimo volume del Nuovo dizionario universale e ragionato di agricoltura, economia rurale... dell’agronomo coneglianese Francesco Gera: al formaggio dedica ben 157 pagine. Amara la sua constatazione: “Poco assai si è occupata l’Italia intorno alla fabbricazione di altre specie di formaggi”. A parte questo giudizio la voce del suo dizionario dedicata al formaggio è un vero e proprio trattato di arte casearia, con la discussione di una ricchissima e aggiornata bibliografia in merito, anche italiana: ci piace segnalare, uscito a stampa a Venezia nel 1803, il Calendario del cascinajo curato dal toscano Marco Lastri. Non solo: accenna alle prime forme di latterie sociali nate in Svizzera: les associations rurales ….connues sous le nom de Fruitières o Fruiteries, simili peraltro, sottolinea il Gera, ad alcune società distribuite nella bassa lombarda, dove la dimensione e la pezzatura del formaggio di Lodi richiede una quantità di latte che presuppone mandrie di decine di capi. Propone anche dei modelli di statuto-contratto… siamo nel 1840. Quando passa a descrivere tutti i formaggi d’Europa, dopo aver discusso di Francia, Svizzera, Inghilterra, Olanda, si sofferma sulle specialità italiane. Spiega come vengono fatti i mascarponi, si sofferma a lungo sul “formaggio di Lodi volgarmente di grana” e per gli ultramontani parmigiano, passa poi a pecorini della Toscana, della Val di Pesa e della Val d’Elsa, al pecorino di creta del Senese, ai marzolini del Chianti, al caciocavallo di Gravina, ai caci della Calabria, della Basilicata, di Napoli, della Puglia, degli Abruzzi…

Ma l’Ottocento è anche il secolo delle grandi inchieste. Due in particolare, quella di Filippo Re, uscita tra il 1808 e il 1813 e quella di Stefano Jacini, pubblicata nel 1882.

Il corrispondente per Belluno scrive per Filippo Re:

“Calcolato che il numero delle vacche da latte sieno n. 12.000, e che una vacca dia in totalità in un anno libbre 40 di butirro, in un anno la quantità sarà di libbre 480.000 - 2.400 q. - di cui la terza parte passa in commercio colli dipartimenti vicini e due terzi sono consumati nel distretto. Non si ritrae formaggio che superi il commercio interno; perciò non vi è commercio esterno, ma solo trafico interno”.

Ecco la conferma: il vero business era il burro e, con latte deprivato della parte grassa, non si potevano ottenere che formaggi scadenti. Per la pianura, per i territori di Noale e Mestre, annota nelle sue risposte Agostino Fapanni, che non ci sono vacche da latte ma solo buoi da lavoro e l’unico formaggio che si ricava è quello pecorino dalle pecore che a decine di migliaia scendevano dal feltrino e dal Primiero per le transumanze invernali, pecorino che poi finiva a Venezia. 

Molto più dettagliata l’Inchiesta Jacini. Alcuni dati. Per il veronese questi i formaggi prodotti: il “pecorino” (impropriamente detto così), fresco e vecchio, il primo consumato appena fatto: due tre mesi, il secondo, detto formaggio di montagna, confezionato cioè dal latte dal quale è stato estratto il burro. In realtà come attestato da più fonti, raramente si produceva solo formaggio di vacca, ma il cosiddetto “misturino”, soprattutto in uso nei confini con Trento e Vicenza, confezionato con latte di vacca e di pecora: 40 vacche per 200 pecore, in formaggelle. Il puro di pecora veniva confezionato in forme di 12 cm di diametro e 1 kg di peso. Era uso anche il consumo di stracchino, preparato durante il viaggio di monticazione e smonticazione, scadente, consumato dai produttori, importato dalla vicina Lombardia . Abbondante la cajà o puina, la ricotta.

Più articolata la situazione nel vicentino: “Il nostro formaggio dicesi impropriamente pecorino” scrivono i delegati, estivo, fatto durante la monticazione, grasso e magro e quello invernizzo, durante i mesi invernali: è sempre magro. Desta curiosità quello che viene chiamato “Il sistema di Bressanvido”: un casaro riceve il latte da piccoli conferitori, 120 kg di latte per 18 vacche, calcolata una media di 7 kg per capo. Il latte viene pesato e registrato, il conferitore fornisce legna e sale e lascia al casaro il siero e paga 5 centesimi per ogni kg di formaggio. Ogni socio può ritirare, quando crede, formaggio, burro e ricotte per usi domestici: il resto è venduto dal casaro che ripartisce il ricavato fra i soci a misura dei rispettivi diritti.

Questa provvida forma di consociazione – sottolineano - non è tanto generalizzata ne’ nostri paesi come dovrebbe e potrebbe esserlo, ma pur tuttavia in qualche sito essa esiste e senza pompa di regolamenti, di statuti e di altre formalità, arriva perfettamente ai due scopi essenziali di giovare all’interesse dei privati e di procurare un vantaggio per l’economia pubblica…”.

Una sorta di proto latteria sociale. Se saliamo dalla pianura agli altipiani di Asiago la situazione è complessa: si tratta dell’industria più importante. Sono presenti 107 cascine di montagna – malghe- che accolgono 9.929 vacche. Poi una prima e rara citazione: “Nel canale di Brenta si costuma in tal tempo di fabbricare un formaggio assai salato, che colà si chiama morlacco, e viene consumato sul luogo”. 

Latteria sociale

Ma nelle aree di antica tradizione, la bassa pianura lombarda, l’industria casearia è all’avanguardia: il bestiame da latte è quasi tutto svizzero, proveniente dai Cantoni di Schwitz, di Lucerna, di Zug, di Uri, di Unterwalden, di Appenzell: le vacche svizzere, nate in climi salubri, da genitori robusti, nutrite con erbe aromatiche, governate con diligenza sono più prolifiche, di maggior durata e più docili. Una mucca delle Prealpi lombarde non produce più di 25 ettolitri di latte all’anno, mentre una svizzera gliene produce 32. Questa terra scrivono:

“Sa ottenere un burro squisito e due pregevolissime specialità di formaggi: il grana, conosciuto in tutta Europa sotto la denominazione impropria di parmigiano, magro e di pasta dura, sicché consente anche la fabbricazione del burro; formaggio da condimento … e lo stracchino , così detto di Gorgonzola, di qualità grassa e di breve maturazione…ai quali si possono aggiungere gli stracchini grassi invernali che vogliono essere subito consumati”.

A Crema si fabbricano tre qualità di “stracchini”: il Gorgonzola: latte intero durante l’autunno e l’inverno; il Quartirolo: da settembre a novembre quando le vacche sono ancora nei prati, in forme quadrangolari, si conserva quattro-sei mesi unto con olio di semi; le Crescenze: pasta assai più tenera , latte intero, maggiore quantità di caglio... si usa anche lo zafferano. Ma anche Robbiole, piccoli stracchini di forma cilindrica a uso locale, di un etto di peso e i Mascherponi che si ottengono facendo bollire della crema, aggiungendovi a un certo punto aceto, perché si coaguli: “Si dispone quindi la pasta ottenuta a guisa di strato sopra un pannolino assai raro. Si mette quindi detta pasta in piccole forme cilindriche…consumati freschissimi… sono considerati latticini di lusso”. In quest’area “Vere e proprie latterie sociali non esistono nel circondario…”, anche se viene sollevato il problema della formazione dei casari e dei progressi dell’industria chimica, che avrà in Louis Pasteur l’artefice della messa a punto di un sistema di sterilizzazione applicato anche al latte.

Era la pianura lombarda - Lodi e Piacenza - il cuore della tradizione casearia: stracchino, gorgonzola, taleggio, quartirolo, piasentin... il resto del mondo contadino, in Veneto in particolare, consumava tutto il latte o per la produzione di burro, Venezia, abbiamo visto, ne consumava una quantità spropositata, o il latte veniva usato per allevare i vitelli. Ergo: formaggi di pessima qualità. Eloquente a questo proposito quanto scrive Antonio Zava per i distretti di Valdobbiadene e Vittorio:

Il caseificio è un’industria in questo territorio troppo trascurata e da meritare quindi poca considerazione. Il latte che si ottiene dalle vacche viene per la maggior parte utilizzato nell’ allattamento dei vitelli, predominando qui l’allevamento di questi animali; il resto, che è pur sempre una quantità non indifferente, in parte si consuma allo stato naturale, ed in parte si adopera a fare il formaggio, il burro e la ricotta, confezione che viene praticata assai rozzamente. Quasi dappertutto - si lamenta - si adoperano per la caseificazione quei metodi e quegli istrumenti che venivano usati secoli addietro; gli è perciò che noi abbiamo sempre butirri imperfetti e formaggi cattivi. Il motivo: poiché è soprattutto il burro che viene smerciato, anche a prezzi remunerativi, allora viene levato al latte tutta la parte grassa […] di modo che da esso non si ottengono poi che formaggi magri e quasi insipidi (volgarmente detti Sgnech) i quali naturalmente non godono ò commercio alcuna considerazione […] Solo durante l’epoca della monticazione, anche per l’eccellenza dei pascoli, si fabbricano butirri, formaggi e ricotte che spesso riescono eccellenti».
Conclude con un auspicio: «Ne viene quindi che qui sarebbe d’incontestabile utilità l’introduzione delle latterie sociali che pur troppo ci mancano affatto».

Detto fatto e proprio a Cison verrà fondata, nel 1882, la prima latteria sociale della provincia di Treviso seguita l’anno dopo da quella di Soligo.

Ripartiremo da qui, per capire anche il ruolo, non solo sociale, che hanno avuto le latterie sociali e turnarie, per il progresso e lo sviluppo dell’industria casearia. All’alba del nuovo secolo l’industria, grazie ai progressi della chimica e dell’agricoltura, sta per avviare i processi di quella che sarà la nuova industria agro-alimentare… e il latte è pronto.

Danilo Gasparini 
Docente di Storia dell'Agricoltra e dell'Alimentazione