Di necessità virtù: la cucina degli avanzi
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LA CUCINA POVERA
Il riuso in cucina è un’antica tradizione popolare, tipica di una cucina povera, dei contadini e delle classi subalterne che “creavano” ricette con ingredienti che noi oggi definiamo semplici e genuini, legati in realtà per necessità alla stagionalità e alla disponibilità di risorse.

Si potrebbe dire che lo slogan che guidava questa cucina, parafrasando un noto canto politico, era: “Avanzi popolo”.

A questa cucina Olindo Guerrini dedica un gustoso volume: L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa. E risparmiare con gusto, uscito postumo nel 1918 sotto il nome di Lorenzo Stecchetti, ma i suoi erano avanzi di cucine ricche.

Petronilla, alias Amalia Moretti, insegnerà alle massaie italiane questa cucina durante l’autarchia fascista.

Jack Goody, antropologo inglese, ricorda che la cucina è fatta di ingredienti ma anche di riti e di espedienti finalizzati, soprattutto nel passato, a fronteggiare la scarsità e massimizzare le risorse, aspetti coessenziali, il cui intrecciarsi va studiato nella concretezza dei processi storici.

Nel passato, gli ingredienti della cucina popolare, o “povera” come oggi si definisce, erano quelli che si trovavano per lo più nell’orto di casa. La pentola di rame era al centro dell’universo alimentare contadino, posta sul fuoco del camino, dove dell’acqua calda era pronta ad accogliere quanto si portava dall’orto e dalla campagna.

Nel pentolone le donne cuocevano di tutto: zuppe di legumi, minestre di verdure selvatiche e granaglie che con il pane costituivano i piatti ordinari, spesso frutto della combinazione di quanto era avanzato dai pasti precedenti.

IL PANE RAFFERMO
Tra gli ingredienti base di sicuro c’erano pane, acqua… e sale. Sicuro è una parola grossa: “Pane vecchio fa buona casa” si diceva, oppure “Il pane di ieri è buono domani”. È con il pane di ieri, dell’altro ieri e dell’altro ieri ancora che si farà buono domani: basterà arricchirlo, accomodarlo di gusto, riutilizzandolo in ricette nuove e gustose.

Ne La Regola del Maestro, un’antica regola monastica dell’Italia centro-meridionale risalente al VI secolo, una disposizione riguarda le micae panis, le briciole del pane, che alla fine del pasto rimangono sulla tavola. Ai monaci si raccomandava di non gettarle via ma di raccoglierle e conservarle con cura in un barattolo di vetro pulito e asciutto, così da poterle riutilizzare al sabato per farne una torta, con l’aggiunta di uova e farina, da consumare tutti insieme, accompagnandola con una coppa di bevanda calda, dopo aver reso grazie al divino.

A questo proposito Massimo Montanari, nel libro “Il sugo della storia”, ci racconta come, in Belgio, sia possibile ordinare un piatto che in lingua francese è chiamato pain perdu, “pane perduto”, una vera e propria leccornia preparata con pane raffermo, “ravvivato” con uova sbattute, farina, zucchero e un poco di burro.

Questo piatto, che a ben guardare presenta dei corrispettivi anche in Italia e in Spagna e che somiglia non troppo lontanamente alla torta di briciole dei monaci, in lingua fiamminga è detto gewinnen brood e cioè “pane guadagnato”.

... E LE SUE RICETTE
L’universo delle ricette a base di pane raffermo, avanzato, è vasto: dalla panzanella alla ciaudella abruzzese e lucana, dalle acquecotte ai pani cunzati sardi e alle numerose varianti delle panade.

Uno di questi piatti, assai noto, che prevede l’uso di pane raffermo, è di sicuro la Ribollita, una zuppa semi-solida preparata con pane raffermo, cavolo nero e fagioli, diffusa in particolare nella Piana di Pisa e nei territori di Firenze e Arezzo.

Il nome evoca in modo chiaro prima una fase di preparazione del piatto e una seconda “cottura”, quindi un gesto di cucina, una ribollita per consumarla i giorni seguenti. Il nome lo si deve forse alla fantasia e all’estro di qualche cuoco. In realtà si tratta di una zuppa che ha nel pane e nel cavolo nero gli ingredienti principali.

Ne dà conto già Giovanni Del Turco, (1577-1647), compositore di madrigali e cultore di gastronomia presso la corte di Cosimo II de’ Medici, autore del libro di ricette Epulario e segreti vari. Trattati di cucina toscana nella Firenze seicentesca. Descrive una minestra che ha tutto il sapore di essere la prima codificazione scritta della ribollita.

Eccola: Prendi due o tre cipolle grosse e nettale dalla prima scorza et così intere mettetele in una pignatta d’aqqua che non sia piena affatto, acciò poi vi si possa mettere il cavolo et in quella pignatta metti come si è detto le cipolle, olio et sale e lasciale cuocere bene et una ora avanti a desinare vi metterei a cuocere il cavolo et poi si mandi in tavola con fette di pane sotto.
Riboìllita
LA RIBOLLITA
Nel corso dei secoli la preparazione della Ribollita si è affinata a tal punto da diventare una vera e propria ricetta. Pellegrino Artusi la propone come “zuppa toscana di magro dei contadini”. Di essa esistono infinite versioni. Poiché si tratta di un piatto “spontaneo” ogni famiglia era depositaria di una sua personale ricetta. Ancora oggi ognuno la cucina a modo suo e, sebbene esistano tante varianti di Ribollita, sono da considerarsi tutte vere.

GLI INGREDIENTI
Come tutte le ricette contadine non è facile identificarne con precisione ingredienti e quantità da utilizzare nella preparazione: nel passato, infatti, molto dipendeva da ciò di cui si disponeva più che dal gusto personale. La costante è rappresentata da alcuni ingredienti la cui presenza, nelle varie ricette, sembra mantenersi inalterata: il cavolo nero riccio di Toscana, i fagioli e il pane sciocco o sciapo. A questo proposito, va detto che è necessario che:

- il cavolo nero abbia preso “i ghiaccio”, cioè che sia passato da una o più gelate invernali che ne abbiano ammorbidito le foglie;
- i fagioli, che rivestono un ruolo molto importante, siano i cannellini, ovviamente secchi e messi in ammollo la sera prima;
- il pane sia senza sale, raffermo e cotto a legna non tanto per il sapore, quanto per la sua consistenza.

L'ARTUSI
Riportiamo qui la ricetta codificata da Pellegrino Artusi nel libro “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene“.

Come molte delle ricette riportate nel ricettario, anch’essa è il prodotto della rielaborazione borghese delle tradizioni provenienti dalla campagna che Artusi, in parte, raccolse percorrendo di persona l’Italia e, in parte, poté conoscere indirettamente grazie al fitto rapporto di corrispondenza postale che intratteneva con i suoi tanti lettori.

Come sempre poi c’è la corsa alla rivendicazione dell’originalità, della tipicità…
Ma forse, per chiudere, vale la pena di ricordare che se è vero che “Se non è zuppa è sempre pan bagnato” … non è però “Una minestra riscaldata”.

ZUPPA TOSCANA DI MAGRO ALLA CONTADINA

Pellegrino Artusi
“La Scienza in cucina e l’arte del mangiar bene”
a cura di Piero Camporesi( 15a ed. 1911), Torino 1970, p. 92

Pane bruno raffermo, di pasta molle, grammi 400. Fagiuoli bianchi, grammi 300. Olio, grammi 150. Acqua, litri due. Cavolo cappuccio o verzotto, mezza palla di mezzana grandezza. Cavolo nero, altrettante in volume ed anche più. Un mazzo di bietola e un poco di pepolino. Una patata. Alcune cotenne di carnesecca o di prosciutto tagliate a striscie.

«Questa zuppa che, per modestia, si fa dare l’epiteto di contadina, sono persuaso che sarà gradita da tutti, anche dai signori, se fatta con la dovuta attenzione. Mettete i fagiuoli al fuoco con l’acqua suddetta unendovi le cotenne. Già saprete
che i fagiuoli vanno messi ad acqua diaccia e se restano in secco vi si aggiunge acqua calda. Mentre bollono fate un battuto con un quarto di una grossa cipolla e due spicchi d’aglio, due pezzi di sedano lunghi un palmo e un buon pizzico di prezzemolo. Tritatelo fine, mettetelo al fuoco con l’olio soprindicato e quando avrà preso colore versate nel medesimo gli erbaggi tagliati all’ingrosso, prima i cavoli, poi la bietola e la patata tagliata a tocchetti. Conditeli con sale e pepe e poi aggiungete sugo di pomodoro o conserva, e se nel bollire restassero alquanto asciutti bagnateli con la broda dei fagiuoli. Quando questi saranno cotti gettatene una quarta parte, lasciati interi, fra gli erbaggi unendovi le cotenne; gli altri passateli dallo staccio e scioglieteli nella broda, versando anche questa nel vaso dove sono gli erbaggi. Mescolate, fate bollire ancora un poco e versate ogni cosa nella zuppiera ove avrete già collocato il pane tagliato a fette sottili e copritela per servirla dopo una ventina di minuti. Questa quantità può bastare per sei persone; è buona calda e meglio diaccia.»

Danilo Gasparini
docente di Storia dell'agricoltura e dell'Alimentazione