Le origini del formaggio

Domenico Scandella, un mugnaio di Montereale Valcellina, venne condannato a morte dall’Inquisizione, a fine ‘500, per aver sostenuto questo, durante gli interrogatori sotto tortura: “Io ho detto che, quanto al mio pensier e creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli…”.

Domenico non lo sapeva, ma la Via Lattea, in cui siamo dentro, è lì a ricordarcelo. Quasi un destino cosmico il nostro. Così abbiamo deciso di raccontare questa storia, a puntate. Sarà una cagliata lunga e alla fine magari la toma risulterà, speriamo, saporita. Partiamo.

Dal Neolitico… circa 5.000/10.000 anni avanti Cristo
Partiamo da molto lontano. Si dà per certo, da parte degli archeologi, un consumo sporadico e occasionale di latte acido in età paleolitica, all’epoca dei raccoglitori, cacciatori… Qualche centinaia di migliaia di anni fa, allorché nasce la cucina con il controllo del fuoco, il passaggio dal crudo al cotto e con la costruzione dei primi coltelli.

Ma la vera svolta avviene nel Neolitico quando, per più ragioni, l’uomo da raccoglitore-cacciatore diventa agricoltore, da nomade sedentario. Il nostro presente è tutto dentro a quel periodo. Vengono addomesticate piante, in primis cereali, legumi e animali, si perfezionano gli “impreste”, gli attrezzi: una svolta culturale, sociale e tecnologica. Quanto agli animali, di tutto l’universo zoo convocato da Noè sull’Arca, solo 14 specie di animali (tra cui bovini, ovini, equini e suini) superano il concorso per “titoli” su 148 concorrenti. Tra i criteri di pressione selettiva imposti dall’uomo, oltre alla riproduzione in cattività, alla velocità di crescita, al regime alimentare vegetale, alla docilità e al rispetto di una gerarchia, c’era anche quello di essere produttori di carne, lana e latte. Fatta! 

Ma c’era un altro ostacolo da superare: come indurre gli animali a secernere il latte finito l’allattamento naturale dei nati? Insomma, come mungere mediante la pressione della mano dalle mammelle in animali che secernono piccole quantità di latte? L’archeologia ci aiuta. In alcune scene si vede l’allevatore che opera un’attività di stimolo per la contrazione delle sacche mammarie, spreme il capezzolo e nel contempo soffia con un tubo nella vagina, mostrando contestualmente all’animale un lattante. L’insieme di questi stimoli ha fatto sì che gli animali mutassero le loro attitudini naturali. Sembra sia andata così. E sembra anche che quando a mungere sono le donne il latte sia migliore!

Ma come si sa, nel mondo animale, e l’uomo appartiene a questo mondo, volenti o nolenti, il consumo del latte è legato all’età infantile. Il consumo in età adulta, nell’uomo, è l’esito di un lungo e difficile adattamento genetico, che più di altri ha forzato le attitudini naturali della specie e che rimane ancor oggi tutto sommato minoritario.

La produzione di lattasi, enzima necessario per la digestione del latte, è legata all’età nella maggioranza delle popolazioni mondiali, con zone più o meno densamente colpite dalla riduzione della produzione di questo enzima che interessa quasi due miliardi di persone…mica bruscolini.

Sono intolleranti al latte e ai suoi derivati gli abitanti dell’ Asia Orientale, dell’Africa occidentale, i sud-americani indigeni e gli Amerindi in genere, gli abitanti della Nuova Guinea e dell’Oceania. La lactase persistence si pensa sia un risultato dei differenti stili di vita delle antiche popolazioni di cui siamo i discendenti, zone in cui l’allevamento era più o meno importante nella vita di tutti i giorni e quindi dove era più o meno frequente il latte nell’alimentazione quotidiana.

La prima fase del viaggio verso il formaggio furono le bevande alcoliche: il leben nordafricano, il chefir e il Koumis del Caucaso e dell’Asia centrale, il Gioddu sardo ( Miciuratu, Mezzoraddu), il cos, albanese, lo yogurt. Come scrive Michael Pollan, forse “gli esseri umani si diedero all’agricoltura per garantirsi una fornitura più sicura non di cibo, ma di alcol…attraverso la padronanza della fermentazione”, anche del latte.

Il passaggio dalla fermentazione controllata alla coagulazione è stato un atto conseguente. In Europa l’invenzione del formaggio risale a quella che gli archeologi oggi chiamano, dopo le innovative ricerche dell’archeologo inglese Andrew Sherratt, la “Rivoluzione dei prodotti secondari del Neolitico”: quando, cioè nel V e IV millennio a.C., oltre al formaggio e ad altri prodotti del latte, anche altre fondamentali innovazioni, come l’aratro e il concime, furono introdotte in agricoltura.

Molto probabilmente il primo formaggio fresco sarà stato pecorino o caprino: come non pensare a Polifemo e alle sue pecore? Il ciclope nell’Odissea era infatti un pastore di capre e pecore. La transumanza estiva riguarda soprattutto gli ovicaprini e gli ovini, in particolare, nella storia della domesticazione saranno certamente stati i primi: essendo gli unici dal carattere mite, mansueto e gregario, in contrasto alle capre, più indipendenti, nervose e ribelli e inoltre perché l’interesse per i bovini crescerà solo dopo la nascita della nozione dell’animale da lavoro e quindi dell’aratricultura.

La cagliatura artificiale del latte è un processo che dura a lungo e come sempre si basa sull’osservazione empirica e a volte casuale di tentativi. Certamente i primi a essere usati furono i cagli vegetali per poi passare a quelli animali. Ma se è vero che la grande innovazione culturale destinata ad arricchire l’alimentazione umana resta il formaggio, come prodotto finale della “somma” di latte di pecora, di capra o di vacca più caglio, la vera e propria grande scoperta, sul piano tecnico, è stata quella della cagliatura artificiale, ottenuta con l’aggiunta del caglio animale, al latte dei mammiferi stessi. Questa tecnica, sviluppatasi nel Midi della Francia, area montuosa, adatta allo sviluppo della transumanza, si diffonde in Spagna e in Italia. Sempre dalla Francia meridionale inizia la produzione del formaggio semiduro e duro, investendo soprattutto l’Italia Settentrionale, la Toscana, la Sardegna e la Corsica.

Ma, a conclusione di questa prima puntata, ci piace pensare che l’arte di fare il formaggio ci sia arrivata per l’atto di gentilezza di un personaggio: l’uomo selvatico, l’om salvaréch, l’om pelos. Come scrive l’antropologo Giuseppe Šebesta: “È sostanzialmente un comune mortale che vive al di fuori del consesso umano preferendo i luoghi isolati, la montagna, il bosco. A contatto con la natura ha esaltato al massimo le sue caratteristiche fisiche che gli assicurano la vita: forza, robustezza, fiuto eccezionale per inseguire la preda. È timido, rifugge dal prossimo isolandosi al punto tale da attenuare le sue capacità psichiche fino alla stupidità. Non si lava né si pulisce. Non si rade né si taglia i capelli cosicché questi si fondono raggiungendo le ginocchia. Un atto gentile lo intenerisce. A volte sente il bisogno di fraternizzare con gli uomini. Allora si ferma insegnando loro i mestieri della malgazione, della lavorazione dei latticini di cui è maestro”. Nella versione bellunese e trentina si veste di licopodio, una pianta simile all’erica che una volta essicata veniva usata come filtro da latte dai pastori. E a ricordo di tanta leggenda, che ha popolato la fantasia di generazioni di bambini, ci resta una sorta di minaccia-avvertimento. Non a caso si ama dire dalle nostre bande: “Prima o dopo te katarà anka ti quel del formajo” o “Atu katà quel del formajo?”. Volendo si può tradurre, ma perde d’immediatezza.

Tanti secoli in poche righe: il formaggio intanto c’è. Ma non finisce qui.

Danilo Gasparini
Docente di storia dell'agricoltura e dell'alimentazione