Animali al pascolo

Le origini: la leggenda dell’Homo selvaticus
All’origine dell’arte casearia negli alpeggi, vi è una leggenda che attraversa tutte le aree montane italiane, alpine e appenniniche: quella dell’uomo selvatico, conosciuto a seconda della lingua locale come Homo selvadegom in Valtellina, Om salvàrech nel Bellunese, Om pelos in Trentino, Ommo arvadzo in Val D’Aosta, Omo salvatico nel Lucchese. Un essere umano leggendario che si racconta vivesse in luoghi isolati, tra i fitti boschi delle montagne, che avesse una forza e un fiuto tali da permettergli di inseguire facilmente le prede e un aspetto terrificante esaltato dalla pelle di caprone di cui si ammantava. La leggenda narra che solo di tanto in tanto scendesse a valle per fraternizzare con gli uomini e insegnare loro i mestieri della malgazione, di cui era maestro.
E da allora, secondo ritmi stagionali secolari, ha luogo l’atto di portare in alpeggio le mandrie: montegar o desmontegar, cargar o descargar montagna in Trentino e in Veneto, inarpa e desarpa In Val D’Aosta… e quando le vacche scendono dall’Alpeggio si perpetra la tradizione dei grandi festeggiamenti.
Condurre mandrie e greggi al pascolo è stata per secoli un’attività “eroica” e solitaria: intere famiglie di malgari e di pastori durante i mesi estivi vivevano isolate negli alpeggi di alta montagna con contatti sporadici con la vita della vallata.
Recenti attività di ricerca in Trentino hanno portato alla luce uno straordinario patrimonio di scritture rupestri: pastori e mandriani hanno lasciato lungo le vie di transumanza i segni del loro passaggio attraverso un’infinità di messaggi scritti sui sassi: un saluto, un augurio, il conteggio degli animali, la registrazione di un incidente; una sorta di diario collettivo open air, utilizzato per comunicare e conservatosi per secoli.
L’etimologia della parola italiana “malga” viene fatta risalire a una lingua «prelatina», a ricordare che essa non è solo l’edificio dove si produce il formaggio, ma è costituita dall’insieme di pascoli, boschi, pozze, ruscelli e fauna che la popolano, una vera e propria cellula vitale dell’ecosistema globale. L’alpeggio, invece, è l’attività che si svolge nelle malga durante i mesi estivi. Inizia con la monticazione (salita sull’alpe), tra la fine di maggio e la metà di giugno, e termina con la demonticazione (ridiscesa in pianura) a fine settembre.


La “fame d’erba” e l’obbligo dell’alpeggio
La principale differenza tra la realtà odierna e il passato riguarda il carattere “facoltativo” che ha assunto in tempi recenti l’alpeggio. In passato non era neppure concepibile allevare animali in montagna senza ricorrere all’alpeggio; le migliori superfici coltivabili in vicinanza dei villaggi erano utilizzate per produzioni alimentari (cereali, patate, legumi) e le scorte di fieno erano limitate alle produzioni dei maggenghi (prati-pascoli di mezza montagna), a raccolte di “fieno selvatico” nei boschi e su pascoli magri di alta montagna o comunque non accessibili al bestiame, all’utilizzo delle fronde di essenze arboree quali il frassino, somministrate fresche o essiccate.
Gli statuti comunali del medioevo e dell’età moderna - ma la regola è sopravvissuta a lungo - imponevano l’obbligo del trasferimento all’alpeggio di tutto il bestiame. Venivano “esentati” solo i bovini da lavoro, a volte una vacca, più spesso una capra da latte, in quanto necessaria alla fornitura di latte agli infanti. Si volevano evitare i rischi di danneggiamento delle coltivazioni.
Per secoli gli alpeggi sono stati, e in parte lo sono ancora, patrimoni collettivi governati da precisi ordini di “regola”. La regola era l’assemblea dei capi famiglia del villaggio: si trattava di beni comuni, al servizio esclusivo della comunità. Di solito era la regola stessa che gestiva il pascolo, eleggendo a inizio anno tutte le figure destinate al suo governo. Il pascolo veniva usato a volte anche per animali foresti, cioè di contadini non del villaggio: questo permetteva di incrementare gli introiti della comunità. Se l’alpeggio veniva affittato, si procedeva a base d’asta secondo il metodo della candela: valeva l’ultima offerta al momento in cui la candela si era consumata.
Nel corso del XIX secolo con l’incremento dell’allevamento bovino sono aumentati anche i prati a spese delle coltivazioni; la farina, in genere di mais, veniva acquistata con il provento della vendita del burro e dei vitelli. La “fame d’erba” era comunque tale che inviare i capi all’alpeggio restò a lungo una necessità stringente.


Le “macchine da latte” e l’alpeggio facoltativo
Le cose sono cambiate dopo gli anni ’70 del secolo scorso. Da una parte si è verificata una concentrazione dell’allevamento bovino in vere e proprie aziende agricole in grado di disporre di superfici foraggere relativamente ampie, dall’altra è diventato possibile acquistare sul mercato gli alimenti per il bestiame, mangimi e foraggi, svincolando l’allevamento dalla base foraggera. Una circostanza che oggi viene finalmente valutata negativamente per le sue conseguenze ecologiche. L’uso dei mangimi ha consentito di “spingere” sempre di più la produzione e di sostituire il tipo tradizionale di vacca da latte da montagna con le razze specializzate superproduttive. A questo punto l’alpeggio è diventato per molti allevatori un’opzione “facoltativa”, tanto più che le attuali “macchine da latte”, a differenza del bestiame molto più frugale e resistente del passato, risentono negativamente dei fattori di stress associati all’alpeggio (spostamenti, sbalzi climatici, creazione di nuovi gruppi sociali) e all’alimentazione non sempre adeguata che l’alpeggio può offrire a capi ad alta produzione.
Nonostante la diffusione dell’uso dei mangimi per integrare l’alimentazione delle lattifere in alpeggio, non sono pochi gli allevatori che hanno rinunciato ad alpeggiare le proprie vacche o che inviano all’alpeggio solo quelle in fase avanzata di lattazione o già “asciutte” e le manze, le giovani bovine che non hanno ancora partorito.
Per comprendere questa tendenza bisogna tenere presente che le vacche allevate al giorno d’oggi non sono solo molto più produttive, ma presentano anche una taglia nettamente più elevata rispetto al passato. Il peso di una vacca da latte è attualmente pari a più del doppio di quello di una vacca di montagna di un secolo fa, che era ovviamente molto più adatta per peso e agilità a spostarsi lungo ripidi sentieri e a pascolare su pendii accidentati.


Un patrimonio da recuperare
Le malghe e le strutture dell’alpeggio - più di 700 malghe nel solo Veneto, quelle censite ma non tutte attive - rappresentano oggi un patrimonio straordinario: dal punto di vista economico, per la produzione di formaggio e burro di malga che profumano di tutte le essenze che ogni pascolo custodisce, ma anche dal punto di vista storico, per la salvaguardia della memoria di modi e governi delle risorse naturali, di saperi antichi, di economie sostenibili. Si tratta di recuperare anche un patrimonio architettonico che aveva una sua efficienza nei materiali e nelle tecniche costruttive. Ma l’alpeggio oggi si carica anche di valori e sensibilità nuove: il recupero e la salvaguardia dell’ambiente, dei pascoli, dei prati, della straordinaria biodiversità di erbe e fiori che profumano il latte e i formaggi prodotti.
Con il recupero degli alpeggi si è intrapresa anche un’azione di salvaguardia delle razze alpine: è nata la FERBA - Federazione Europea delle Razze Bovine del sistema Alpino. Queste le razze: Abondance, Grigio Alpina, Herens, Hinterwälder, Pinzgauer, Rendena, Tarentaise, Tiroler Grauvieh, Valdostana, Vordelwälder, Vosgienne. Razze da salvaguardare perché idonee per l’alpeggio e il pascolo d’alta montagna, depositarie di un patrimonio genetico importante, parte integrante di un patrimonio culturale specifico delle popolazioni alpine, all’origine di prodotti tipici, che non contribuiscono alle eccedenze comunitarie di latte.
Si aggiunga a tutto questo il fatto che malghe e alpeggi sono diventati meta e oggetto di un nuovo turismo di montagna che unisce ambiente, paesaggi, saperi e sapori: una miscela unica.
Aveva forse ragione Heidi a voler vivere con il nonno sull’Alpe insieme a Peter.


Danilo Gasparini